Un termine applicato alla persona non deve essere né un’etichetta né un simbolo di appartenenza discriminatoria
Qualche anno fa, soprattutto quando imperversavano i gruppi Facebook di Fulltimers, ci fu un momento in cui sembrava che si facesse a gara a dire “io sono più Fulltimer di te” o “io sì che sono un vero Fulltimer!” o ancora “io sono Fulltimer, ma part-time”.
Quell’ondata di farsi le pulci per scoprire se chi vive in camper in realtà una casa da qualche parte ce l’ha oppure no, per fortuna è terminata o almeno non è più così gettonata come allora.
Molti gruppi poi sono stati chiusi e ne sono sopravvissuti solo alcuni, il più delle volte contaminati da altri argomenti che spesso non c’entrano nulla con la vita in camper: specifici ed a tema probabilmente non ce ne sono più.
Anche noi ne avevamo uno e che io adoravo, ma abbiamo preferito continuare il nostro percorso, assieme a voi, qui in questo blog e nel forum.
C’è stato un tempo in cui si rifiutava anche il termine stesso, “Fulltimer”, proprio da chi, come noi, aborra le etichette che catalogano le persone come libri.
Ma rimango sempre convinta che per capirci dobbiamo dare un nome alle cose, per praticità e per intendersi al volo senza tanti giri di parole.
E siccome in Gran Bretagna qualcuno, molti anni prima, aveva coniato questo termine, non vedo perché non usarlo.
Ora però, visto che ho stuzzicato l’argomento, vorrei dire la mia sull’essere veramente e totalmente Fulltimer.
Partiamo dalla mia esperienza.
Un giorno mi accorsi che tutto il mio lavoro, la mia fatica, il mio sudore, servivano per coprire qualcos’altro: l’affitto di casa, la luce, il gas, l’acqua, il condominio.
Per me, per godermi degnamente il tempo libero, non restava niente.
Pensai allora di lavorare di più per guadagnare di più per potermi togliere qualche soddisfazione: un viaggio, un pranzo al ristorante, un weekend rilassante. Ma a mancare era diventato il tempo. Avevo più soldi senza la possibilità di godermeli. Era un’equazione che da qualunque parte la guardassi mi dava un risultato errato.
Iniziai a detestare quella casa, neppure mia, che cominciava a rendermi schiava. Cercai alternative.
Fu allora che scoprii che non ero l’unica a provare quel disagio ed anzi qualcuno aveva trovato la soluzione: vivere in un camper.
Pensai ” proprio io che neppure ci sono mai salita mi adatterei ad una situazione così anticonvenzionale? “
Sapevo però che dovevo provarci e cercando, leggendo, e documentandomi proprio su quei gruppi Facebook a tema, ebbi l’occasione di conoscere Fabrizio.
Era il 2018, quell’anno ZERO in cui molti di noi hanno chiuso il portone blindato di casa per entrare in un monolocale motorizzato. Il resto è la nostra storia che già conoscete.
E così raccolsi le mie poche cose e chiusi quella porta che da lì in poi si sarebbe chiamata “vita precedente”.
Sì, perché mi veniva offerta una seconda vita tutta da scoprire lungo una strada tutta da percorrere.
Le mie cose, dicevo.
Le mie cose stavano già tutte in una borsa. Non ho mai amato accumulare, comprare e ricomprare, per cui ero avvantaggiata rispetto ai piccoli spazi del camper.
Ma torniamo al concetto di Fulltimer.
Fulltimer è chi ha tutto, ma proprio tutto eh, in quella casa viaggiante.
Non c’è un’altra casa di appoggio, non c’è una “base” dove tornare, con un lungo elastico che tira prima o dopo verso di essa, o dove “defaticarsi” dalle ristrettezze del camper per 6 mesi l’anno.
Lì dentro hai tutto il tuo “micromondo”, ma proprio tutto, e te lo devi fare bastare.
Sia chiaro: non sto denigrando nessuno e nemmeno sto appropriandomi del termine come alcuni facevano un tempo.
Ho solo espresso la mia percezione di vivere in camper e spero, con queste poche righe che racchiudono il concetto della mia nuova vita, di esserci riuscita.
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